Renato Fattorini: dalla borgata alle occupazioni

renato fattorini

Renato Fattorini

A 83 anni Renato Fattorini tuona: “I dirigenti del Pc ci rimproveravano perché quella che facevamo non era la rivoluzione che te insegnavano loro, quella dei libri. Mi accusavano di essere populista. Con l’ignoranza che avevo non li capivo. Avevo solo la terza elementare allora, però io ero cosciente che la gente non deve avere paura della polizia. Perché lo stato borghese usa la polizia per intimorire il popolo e noi dobbiamo dimostrare al popolo che uniti siamo forti! E non in teoria ma in pratica! E le lotte che abbiamo fatto erano di questo tipo qua: ci sgombri? E noi occupamo Ci sgombri? Tu procedi con la polizia….  E come allenti noi rioccupamo. E’ populista questo? Addestrare il popolo a lottare contro il nemico di classe? Come si presenta il nemico? Tramite la polizia o no? O non ho capito io cos’è la lotta?.” E spiega: “Il Pc ci diceva che non si occupano le case popolari, perché le case popolari erano di altre persone in graduatoria: “Perché voi le occupate?” Le case erano già assegnate e noi non eravamo contrari a questo discorso. C’era però una cosa contro cui noi lottavamo: le case popolari, con la compiacenza del gruppo burocrate dei funzionari dell’Icp, venivano spartite tra Dc e Pc. E le poche case del comune a causa di quest’accordo finivano nella spartizione decisa dentro i palazzi. E a noi non stava bene! Ce lo diceva la gente! Chi era benedetto da Tozzetti e dagli amici poteva avere casa.  Questo ci spingeva a occupare!”

Parlare con Renato vuol dire attraversare la storia delle lotte dal dopoguerra a oggi. La sua storia è fatta di passione. Dalla borgata alle occupazioni, fino all’autocostruzione.

 Mio padre aveva casa in affitto a Tor Pignattara e dopo aver fatto domanda all’Icp nel ‘41 ci trasferimmo lì insieme a tutti quelli degli smembramenti del centro storico. Quelli a cui avevano buttato giù casa per far posto all’impero. Mio padre era comunista, collegato ai partigiani del Quadraro e di Tor Pignattara per cui da piccoletto ascoltavo le discussioni che capivo poco e niente. L’impronta di sinistra ce l’avevo. Mio padre portava le armi ad Avezzano dal fratello. Servivano ai contadini. In cambio riportava le patate. Io dormivo su montagne di patate. Ancora sento i bozzi sulla schiena. Le patate in quel periodo era oro, come la carne de’ vitella.

Poi mio padre che ha fatto? Ha portato a casa un reduce sfuggito dalla guerra. Era il ’43, una specie di quel film “TuttI a casa” con Alberto Sordi. Che vuol dire? Badoglio disse di farla finita con la guerra e so’ venuti i tedeschi. I fascisti si sono messi a fa’ la guerra coi tedeschi. Mio padre ha preso uno di questi soldati, Michele che viveva con noi. Un ragazzo che aveva buttato la divisa, ma che doveva rimanere nascosto. Vicino casa mia però c’era Pietro il fascista, che non era cattivo, ma aveva bisogno di mangiare.  O stai con loro, come oggi succede oggi con Berlusconi, se vuoi magna’, oppure se hai un’idea non ci stai. Con Michele in casa rischiava tutta la famiglia. Ogni volta che i tedeschi venivano a trovare la sorella di Pietro, che era una poco di buono, che annava coi tedeschi, noi avevamo paura. Michele quando arrivavano i nazisti si nascondeva nell’armadio. Ricordo bene quest’armadio tremare! Lui da dentro mi diceva: “Renato! Guarda quando se ne vanno!” Ma i tedeschi li ci passavano molte ore. Arrivavano col sidecar e io piccoletto guardavo fuori ore e ore. La casa del fascista e la mia era divisa da una stanza! Ecco forse perché so diventato di sinistra! Elvira mia sorella, morta da poco, l’ha cercato tanto Michele. Avremmo voluto rivederlo, ma non abbiamo trovato.

Io sono stato operaio, poi nel tempo so’ diventato artigiano e commerciante. Oggi questa casa è mia e ci ho pagato il mutuo. Ho iniziato a lavorare in piccole fonderie con i padroncini che dopo 6- 7 mesi, con umanità ti dicevano di non avere più lavoro e ti mandavano da un amico che aveva bisogno di operai. Poi ho conosciuto mia moglie. Anche lei viveva a Borgata Gordiani. La Borgata allora contava 2 mila persone dove vivevamo da terzo mondo. Nel ‘58 ero tornato da fare il soldato. Io lavoravo in piccole officine, ma il lavoro non mi dava possibilità di mettere su famiglia. Stavo nel laboratorio coi nipoti di Lauro. Il sindaco di Napoli! Quello che te regalava una scarpa prima e l’altra dopo il voto. Una famiglia potente, erano costruttori di navi. A questi, dopo un anno e mezzo gli ho detto: “Me ne vado!” Eravamo 10 operai e quelli mi chiesero: “Perché? Che fai?”  Gli spiegai che me mettevo per  conto mio, ce provavo! E loro: “Che metti i forni a nafta?” Mò, i forni a nafta era la tecnologia del momento….”No! Io sai che faccio? Lo vedi quel fusto di benzina? lo taglio e ce metto un’inferiata sotto e ce faccio il forno. Fuori casa io avevo fatto un’incannucciata e lì piano piano, con molta difficoltà, cominciai. Poi ho preso un lavoretto che ho saputo sfruttare molto bene. Gli artigiani che fabbricavano i ferri da stiro avevano bisogno del poggia ferro da stiro. Io ne ho preso uno arrivato da Milano, ho fatto stampo e ne ho fatti a migliaia. Guadagnavo 4-5volte di più del salario e ho chiamato i miei tre fratelli. Tutta la famiglia lavorava insieme e se riusciva a tirà fuori qualcosa e se magnava.

In Borgata ognuno aveva una stanza e lì facevi tutto. Il bagno era comune ed esterno, le donne avevano il buiolo, così lo chiamano i carcerati.  Le donne la facevano in casa, noi uomini in giro perché quello pubblico era impraticabile sporco, senza porte. Il nostro grado di inciviltà si vede da queste cose, la cosa pubblica non è mai rispettata. Si viveva da terzo mondo! Non si poteva vive in quelle condizione! Senza bagno, senza cucina, senza niente! Mi sono guardato intorno ad amici e compagni di baldorie ho detto: “Che cazzo stamo a fa’? Tu, tu e tu ve siete sposati, stamo a cresce i figli in quest’ambiente qua. Noi non siamo persone fossilizzate!  Noi dobbiamo ribellarci! Abbiamo detto a quelli dei Pc se erano d’accordo, io ero iscritto al partito socialista e ero diventato segretario. La sede stava in una baracca in Borgata.  Così ho fatto le lotte sociali, ma il Pc non ci seguiva. Eravamo i rompi balle! Più ribelli de’ loro! Era una cosa spontanea, infatti nel ‘55 noi del Psi avevamo più libertà. Noi volevamo fare le barricate e il segretario del Pc locale mi disse: “Ma che sei matto? Se bloccate la strade vi danno dai 6 ai 7 mesi. Noi però eravamo giovani e ribelli. Gli risponnemmo: “A noi che ce frega? Dobbiamo liberarci da queste condizioni di inciviltà!” Quindi andammo avanti senza unità d’azione. Tozzetti era già consigliere comunale e il Pc lavorava per arrivare al Governo.

Poi aprii sezione del Psiup a Cinecittà. La nostra era una sezione aperta. Venivano i ragazzi di Lotta Continua, del Manifesto. Ricordo bene quando cacciai un loro dirigente perché preparavano le bombe molotov in sezione. Un vero e proprio centro accoglienza! C’erano parecchi che poi entrarono in clandestinità. Organizzammo una grossa manifestazione quando i fascisti ci hanno dato fuoco.

“Noi qui se semo stufati!” Continuavamo a dire alle varie istituzioni. La Borgata Gordiani si trovava tra via Casilina, Tor Pignattara e Centocelle. Dove oggi c’è il campo Rom! All’entrata aveva la caserma dei carabinieri, noi eravamo sorvegliati fin dal tempo del fascismo! Visto la piega che prendevano le nostre lotte, ci misero  anche la polizia! Era come in campo di concentramento. Insieme a Tozzetti abbiamo fatto tante riunioni, anche con Carla Capponi nel ‘54, ma le riunioni non risolvevano niente. Nel ‘59 il Psi ha Grisolia vice sindaco. Sto’ Grisolia ci disse: “Voi non siete socialisti! Voi siete anarchici” Un giorno abbiamo chiamato Palleschi facevamo casini bruciando gomme. Palleschi arriva in riunione. Entrando in borgata vide un grande striscione: “centro sinistra centro destra borgata Gordiani resta”. Palleschi entra gridando: “Ma che fate? Sono soli pochi mesi che governiamo dateci tempo.” Ce le dicono pure oggi eh? E noi gli rispondevamo: “Ma quale tempo? Noi qua ci viviamo!” Abbiamo così organizzato manifestazione a Tor di Nona 61, la sede centrale dell’Icp, anche col Pc. Noi abbiamo portato la gente con i pullman. Eravamo pieni di scugnizzi e la gente era incazzata. Senza permesso ci hanno fermato a Piazza Venezia. Quindi abbiamo attraversato Roma urlando. La sora Peppina non smetteva di ripetere: “Ciavemo le sorche così!!!!!!!!!!!”. Quando arriviamo al presidio Tozzetti s’è messo le mani nei capelli. Eravamo i bambini di Che Guevara. Da quel momento la rottura politica era inevitabile perché Tozzetti non rispettò gli impegni presi. La borgata da 2 mila persone ne contava 700, che rimanevano lì abbandonati. Le baracche di chi aveva avuto casa venivano buttate giù e per chi rimaneva la situazione era ancora più degradata. Sembrava Beirut. I topi regnavano in borgata. Abbiamo detto a Tozzetti: “Senti, noi abbiamo individuato un gruppo di case che appartiene a noi come politicamente deciso dalla legge 104 destinate ai borgatari di Pietralata, Tiburtino III, a chi abita nelle scuole e negli scantinati. Noi le abbiamo individuate, stanno a Cinecittà. Voi che fate?” E Tozzetti: “Voi chi?” E io: “Noi borgatari, noi tutti!” L’ assemblea l’abbiamo fatta a casa mia. A Tozzetti gli abbiamo detto: “Dove stanno le case non te lo dimo.” E lui: “Quando andate?” C’era pure mia madre che a 70 anni  si era stufata delle lotte. E chiesi secco: “Voi che fate?” Tozzetti rispose:  “Noi non siamo d’accordo, potremmo fare una riunione!” Ma noi eravamo già pronti, fuori dalla borgata il camionista, con tutto il materiali e beni di prima necessità per l’occupazione, stava a mette a moto. Le persone già da giorni mi chiamavano: “Annamo a manifestà, se semo stufati d’aspettà” E così siamo andati a occupà a Cinecittà. Era il ’63. Avevamo però bisogno di far conoscere le nostre lotte alla gente,  così prima di occupare  ero andato all’Unità e diedi orario a un giornalista che documentò tutto. Il giornalista fotografò il poliziotto che trascinava una donna, Marisa tirata a sua volta dal figlio. Finalmente l’opinione pubblica ebbe la prova che l’Italia si era stufata di essere senza casa e di vivere in quelle condizioni. Subito dopo, in mattinata è arrivato Tozzetti. Stavamo sotto le case popolari e ci disse: “Vabbè adesso che avete occupato torniamo in borgata” E io: “A Tozzè, ma che te pensi? Che stamo a fa ginnastica politica?” Noi contestavamo la spartizione clientelare delle case popolari, ma anche per le famiglie che prima dell’equo canone, non potevano pagare l’affitto. Dopo l’occupazione facevamo la lotta per legalizzare la situazione e stabilire un affitto. Avevamo occupato case costruite con la legge 140, si trattava di alloggi molto semplici, basta considerare che la cucina era ancora col carbone. Con Scognamilio  direttore dell’Icp contrattavamo per definire il contributo. In cambio ci chiedevano di consegnare le baracche della borgata. C’era il pericolo che andassero a occuparle e noi promettemmo di sorvegliarle per un mese. Le famiglie rimaste in borgata erano arrabbiate. Noi eravamo un’avanguardia. Subito dopo ci seguì anche la gente del Quadraro. Davanti il nostro palazzo c’erano le case costruite con la legge 120, quelle cosiddette di lusso e occupammo anche quelle.

Loredana Mozzilli l’ho conosciuta durante l’occupazione delle 300 case dell’Icp al Celio. Case destinate alla distruzione perché ritenute pericolanti. Con Loredana andavamo a fomentare in borgata la gente. La corrente del Manifesto chiese a noi, rivoluzionari da strapazzo, di aiutarli ad occupare. Abbiamo condotto molte azioni insieme ai dissidenti del Pc passati al Manifesto guidati da Natoli. In una notte occupammo  3 mila alloggi a Montesacro.

Quando ci siamo rafforzati siamo passati a occupare l’invenduto privato. Nel ’72 a Prati di Papa Loredana individuò un’immobile privato sfitto con 200 appartamenti. Abbiamo occupato insieme a Tozzetti, ma la vera protagonista fu Loredana. Era giovane, laureata e una grande organizzatrice. L’ assemblea la facemmo alle consulte popolari, al Sunia. In assemblea Tozzetti ci chiede: “Ma di chi so ste case? So private? Oddio!” e si mette le mani nei capelli.  Tozzetti comunque era una brava persona dal punto di vista personale, un sensibile. Ci assomigliavamo, l’unica differenza era che lui voleva arrivare, voleva fare carriera.  Io invece ero un portatore d’acqua al primo che doveva arrivà, cioè alla gente.

Poi occupammo il Continental dove la gente per ripristinare gli ambienti metteva a disposizione i mille mestieri. Noi avevamo un compito. Dovevamo unire i proletari più incazzati e quelli più avanzati che dovevano trainare, educandoli alla lotta. Questo significa che la lotta non è un momento, ma un percorso continuo. Non tiri fuori militanza, ma crei coscienza. Abbiamo lanciato tanti semi. Ho incontrato tante persone di quegli anni diventati poi nei loro ambiti, nei loro quartieri dei veri condottieri. Al Continental abbiamo subito tanti attacchi, anche personali. Era il periodo del rapimento di Aldo Moro e delle organizzazioni armate. A casa mia piombarono alle 5 del mattino i carabinieri che mi dissero: “Ma perché non ci lasciate entrare in occupazione? Ma che vi credete una Repubblica a parte? Noi dobbiamo controllare!” Al Continental non si passava, avevamo controlli serrati e le barricate ai cancelli. Io risposi: “Abbiamo tanti bambini e abbiamo paura per loro.” Mi assicurarono di mandare i loro uomini migliori che varcarono i cancelli e controllarono tutto senza intralci. A Termini d’altronde più di qualcuno mi aveva confidato che da quando c’era la nostra occupazione la vita era migliorata, perché controllavamo il territorio. Avevamo dei padri di famiglia che per campare rubavano, ma i patti erano chiari. La refurtiva non doveva assolutamente entrare. Poi l’esperienza doveva concludersi e iniziammo a parlarne con il vice sindaco Benzoni, al tempo c’era il Sindaco comunista Argan. Avevamo problemi interni, faccio un esempio. Quando morirono tre donne nell’incendio di Radio Città futura organizzammo una colletta tra le famiglie. Tirammo fuori 200 mila lire, per noi erano tantissime. Autonomia operaia pretendeva che fossero spartite con Radio Onda Rossa, noi non eravamo d’accordo. Ci furono tensioni e minacce. Anche quando con le famiglie occupammo simbolicamente la stazione Termini per chiedere le case le discussioni si riaccesero. Noi non potevamo esporre al pericolo donne e bambini. Invece questi pretendevano che l’azione proseguisse a oltranza. Poi le case furono assegnate e lo stabile liberato.

Organizzammo anche l’occupazione dei 300 appartamenti di proprietà di Piperno a Magliana in via Pescaglia 3. Si trattava di un immobile che ci avevano segnalato molte famiglie. Semi vuoto a causa dei numerosi sfratti che avevano colpito le persone che non potevano permettersi gli affitti a libero mercato. Oggi le famiglie ancora vivono li.

Terminate queste lotte tornai a Cinecittà, dai vecchi compagni di baldoria. Il 50% degli uomini però erano ubriaconi e alle assemblee ci venivano solo le donne. Avevamo grossi problemi con i bambini dell’occupazione che a scuola erano stati parcheggiati nella stessa classe. Erano stati abbandonati e senza programma scolastico perché troppo vivaci. Al Preside lo denunciavamo di ghettizzazione. I giovani che si avvicinavano, gli universitari, ci aiutarono a mettere su una scuola. Con i compagni più avanzati abbiamo tolto i calcinacci dalle cantine e le abbiamo fatte diventare  un’aula. Ma le famiglie erano contrarie, al tempo i bambini venivano a mandare a lavorare.

Poi negli anni ‘80 un gruppo di lavoratori che non potevano permettersi un affitto organizzarono l’occupazione del cantiere di via Ferrini. In assemblea accordai il mio appoggio e le famiglie si sono costruite con i materiali di risulta le case con le loro mani. Formarono un comitato tra lavoratori e famiglie bisognose e dopo tre anni di trattative tutte presero casa a Casal de’ Pazzi. Erano tosti, anche le trattative con l’Amministrazione se le sono condotte da soli. So che qui l’Unione Inquilini diede un grosso contributo. Dell’Unione Inquilini ricordo bene il Compagno di Firenze Simoni, il diavoletto lo chiamavamo! Sono stato a casa sua 30 anni fa! Non c’era a Roma quando ho iniziato, dopo gli anni ’80 ho conosciuto molti compagni. Fabio Alberti, un vero amico! Anche Dino Piras è molto bravo.

La gente continuava a chiedere una mano. A tiburtino III facemmo un’assemblea con una serie di persone. Arrivavano da Cinecittà, da tutte le parti le persone che erano in lista. Prendo la parola in assemblea. Noi avevamo una morale, pedagogica forse scolastica, ma serviva perché l’occupazione è la cosa più facile del mondo, apri un cancello e entri. Poi però ci sono alcuni pericoli: il padrone che vuole la casa e se lasci il gregge questo si disperde. Il gruppo deve diventare un esercito! Io prendo la parola e dico: “L’occupazione la famo però prima di iniziare mettiamo alcune cose in chiaro. Dobbiamo essere socievoli, ce dovemo aiutà! Non se spaccia qui…” E qualcuno iniziò a dire: “E mo’ che c’entra lo spacciatore…” Insomma non era più il momento, non c’era più la condizione sociale, la gente era cambiata.

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